Con la sentenza n. 841/2020 del 9 maggio 2020, il Tribunale amministrativo della Regione Calabria ha annullato l’ordinanza contingibile e urgente del presidente della Regione n. 37/2020 nella parte in cui aveva consentito la ripresa delle attività di ristorazione, non solo con consegna a domicilio e con asporto, ma anche mediante servizio al tavolo purché all’aperto e nel rispetto di determinate precauzioni di carattere igienico sanitario.
Ad impugnare l’ordinanza regionale è stata la Presidenza del Consiglio dei Ministri, lamentando la violazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, e in particolare la competenza statale esclusiva in materia di profilassi internazionale e la competenza concorrente in materia di tutela della salute e di protezione civile.
Il TAR ha rilevato come, per espressa previsione contenuta nel D.L. del 25 marzo scorso (articoli 1 e 2), la competenza ad adottare le misure urgenti per evitare la diffusione del Covid-19 e le ulteriori misure di gestione dell’emergenza sia attribuita al Presidente del Consiglio dei ministri, il quale, nel caso in esame, ha adottato il DPCM del 26 aprile consentendo l’attività di somministrazione di cibi e bevande attraverso la consegna e l’asporto.
D’altro canto, alle Regioni è permesso adottare misure di efficacia locale, nelle more dell’adozione di un nuovo DPCM, esclusivamente “nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale” (art. 3 del D.L. citato). Tuttavia, deve trattarsi di interventi giustificati da “situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario” proprie della Regione e di misure “ulteriormente restrittive” rispetto a quelle già adottate con DPCM.
Nel caso di specie, il TAR ha rilavato che l’ordinanza n. 37/2020 della Regione Calabria è illegittima poiché, permettendo l’attività di somministrazione di cibi e bevande anche mediante servizio al tavolo all’aperto, introduce misure certamente meno restrittive rispetto a quelle già previste dal DPCM del 26 aprile che aveva invece solo consentito la consegna e l’asporto.
Inoltre, secondo i giudici, il provvedimento regionale non appare sufficientemente motivato dal momento che giustifica la ripresa delle attività di somministrazione all’aperto sulla base del solo valore di replicazione del virus all’interno della regione – che sarebbe stato misurato in un livello tale da indicare una regressione dell’epidemia – quando, invece, il rischio epidemiologico e sanitario dipende anche da ulteriori elementi quali l’efficienza e la capacità di risposta del sistema sanitario regionale, e l’incidenza che sulla diffusione del virus producono le misure di contenimento adottate e via via gradualmente revocate.
Dal momento che non esistono certezze scientifiche sulla possibile diffusione del virus, l’operato dei poteri pubblici deve ispirarsi al principio di precauzione: “ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri deve tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche”.
Secondo il giudice amministrativo, quindi, ogni iniziativa finalizzata a modificare le misure di contrasto all’epidemia non può che essere sorretta da un’attenta e minuziosa attività istruttoria; attività che, nel caso dell’ordinanza del Presidente della Regione Calabria non sussiste, dato che l’adozione del provvedimento regionale non risulta neppure preceduta da una qualsivoglia forma di intesa, consultazione o anche solo informazione nei confronti del Governo, con conseguente difetto di coordinamento tra i due diversi livelli amministrativi e, dunque, la violazione da parte della Regione Calabria del dovere di leale collaborazione tra i vari soggetti che compongono la Repubblica.